Una storia dimenticata o volutamente occultata (Parte Quarta e ultima)
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I cardinali francesi rifugiatisi ad Anagni non riconoscono l’elezione di Urbano VI e supportati dal regno di Francia danno vita allo scisma d’Occidente con l’elezione del antipapa Clemente VII. Soldati delle compagnie bretoni e guasconi, inviate dal re di Francia, percorrono la penisola e si attestano presso Viterbo.
I Banderesi vedono in questo, un’occasione per accattivarsi Urbano VI, eleggendosi suo protettore.
Il 22 luglio del 1378, i Banderesi pongono d’assedio Castel S. Angelo e i sostenitori dell’antipapa, mentre le truppe di Alberico da Barbiano, composte dalla sua compagnia italiana e dalle milizie della Felice Società, sbaragliano i bretoni e i guasconi a Marino, entrando da vincitori in Roma.
Il 1 maggio del 1379 cade anche Castel Sant’Angelo. Il papa scortato dalla milizia romana fa ritorno in Vaticano e la città tira finalmente un respiro di sollievo.
Pochi mesi però sono sufficienti per rimettere in contrasto i due poteri forti della città. I Banderesi spingono il popolo a sollevarsi sotto la minaccia dell’autorità papale che li avrebbe privati della libertà d’azione nella gestione del comune. Interviene nuovamente S. Caterina per evitare lo scontro “ed un nuovo scempio della città”, tuttavia la sua morte, il 29 aprile 1380, compromette il tutto.
Urbano VI, esasperato dalla politica autonomista, s’impone nelle nomine dei nuovi banderesi e dei loro consiglieri, privandoli di autonomia e carisma, ciò è evidente, nell’elezione del podestà della città di Rieti che nel 1382 lo elegge nel totale disinteresse Capitolino.
Le elezioni successive dei Banderesi, ripropone la lotta con il Pontefice, battaglia che li vede vincitori, temporanei, allo scoppiare della peste e alla fuga della corte papale a Napoli, aprile 1383.
Tuttavia i Banderesi, orgogliosi e potenti, nulla possono nell’accumularsi di rovine, miseria e sporcizia nella città. Privi dei mezzi economici per risollevare la capitale sono costretti a invocare il rientro di Urbano VI. Il papa punisce i sobillatori della rivolta, scomunicandoli e costringendoli a chiedere venia, scalzi e col capo scoperto. Quest’immagine ha un grosso impatto sui romani che vedono tramontare il loro spirito di libertà e autonomia.
Urbano VI abbandona la vita terrena il 18 ottobre del 1389 lasciando il posto al battagliero Bonifacio IX (1389-1404). I Banderesi, approfittando della successione, si sostituiscono al comando dello Stato e rivendicando l’indipendenza del Campidoglio.
Bonifacio IX comprende, che per abbattere i Banderesi, bisogna sottrarre loro il supporto del popolo e la potente milizia della Felice Società dei Balestrati e Pavesati.
Sfrutta lo stato di Roma e dei romani che vivono in una profonda situazione di abbandono e miseria, difatti la ricchezza dei primi anni di governo è sparita sotto l’azione corrosiva delle continue guerre di potere. La decadenza degli antichi monumenti è solo l’immagine esteriore del dramma che vive la città. La scarsità di mezzi e risorse spinge il popolo a guardare verso quei poteri forti che per secoli li hanno dominati, e illudendosi nella speranza di migliorare le loro condizioni di vita, cedono di giorno in giorno la loro autonomia e libertà, isolando la gilda dei Banderesi.
Così, sotto il pontificato di Bonifacio IX, inizia il declino del Governo dei Banderesi. Logorati dai continui attacchi di nobili e cavallerotti, corrosi dal clero, perdono anche la spinta popolare su cui poggiava la loro forza, inoltre ad ogni occasione e accenno di rivolta Bonifacio abbandona la città per Viterbo, Perugia, Assisi, ed ogni volta un ambasceria dei notabili romani parte per implorare il suo rientro. Sfruttando il desiderio popolare della sede papale in Roma, Bonifacio IX intavola trattative sempre più estenuanti per strappare le migliori condizioni e annullare ogni velleità di libertà da parte dei cittadini.
Bonifacio, sul finire del 1393 è, di fatto, il nuovo padrone della città, ripristinando leggi come l’assoluta libertà di azioni, da tasse, balzelli per tutti i luoghi ecclesiastici come per il clero e i nobili, ripristinando uno status quo vecchio di decenni, e lasciando ai Banderesi la sola gestione tributaria e di difesa del contado.
Bonifacio IX sfrutta, inoltre, la carta del vicino giubileo del 1400 per sottrarre la Felice Società dalle mani dei Banderesi, sicuro che i romani anche in questa occasione non avrebbero opposto resistenza.
La milizia fiaccata dai lunghi anni di carestie, conseguenza delle interminabili guerre contro nobili, compagnie di ventura, stati nemici, rinunzia alle idee bellicose dei loro capi volgendo lo sguardo alla più mite politica papale.
La magistratura militare e civile dei Banderesi viene abolita con atto nel 1398 e i loro affari finiscono in carico a tre conservatori.
I Banderesi riparano a Terracina da Onorato di Fondi. Lì organizzano un esercito terracinese con stemmi e vessilli romani per proteggere i soldati da una rivolta della popolazione.
I cospiratori riescono a penetrare in città e cingere d’assedio la rocca del Campidoglio, ma la sperata resa per sorpresa e l’aiuto del popolo non giungono. Il primo perché ben difeso dal vice senatore, la seconda perché i romani desideravano più lucrare sul giubileo, come aveva previsto il papa, che riavere un proprio governo. Una notte di agosto del 1398, assieme ai due Banderesi muore l’autonomia comunale e la libera Repubblica Romana del giusto governo.
I primi anni del XV secolo, vedono Roma nuovamente cadere nelle mani dell’anarchia. Le cronache parlano di assalti, stragi, barricate, sentenze sommarie gran parte giostrate dalle potenti famiglie degli Orsini, dei Colonna rientrati in città.
Roma cade, per un brevissimo periodo, nelle mani del re di Napoli Ladislao invadendola con i suoi armati. Solo riunendo gli eserciti della Chiesa e ciò che restava della Felice Società la città è liberata. Tuttavia i tumulti non si placano e papa Gregorio XIII, succeduto a Bonifacio IX e Innocenzo VIII, è costretto a proseguire con il mesto peregrinare della sede pontificia in attesa di tempi migliori.
Tempi migliori che ancora oggi attendiamo.
Giuseppe Benevento