Una storia dimenticata o volutamente occultata (Parte Seconda)
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Nel nuovo statuto del Comune, i nobili furono esclusi da qualsiasi carica amministrativa e persero anche il comando della milizia cittadina che ricade nelle mani dei due capitani detti Banderesi, dal tedesco Banderen per via dei grandi vessilli che li distingueva.
Sulle bandiere, sui fregi, sulle monete, sui muri dei palazzi compaiono i simboli del pavesato e del balestriere combattente come effige di libertà e giustizia.
La sede dei Banderesi fu posta nella rocca del Campidoglio.
La Felice Società dei Balestrieri e dei Pavesati era costituita da uomini forniti dai tredici rioni, suddivisi in una coorte di balestrieri e in una di pavesati. I primi dotati di corazza, balestra e cavalli pattugliavano la città e le vaste campagne, per scoraggiare nobili e compagnie di ventura da intenti bellicosi. I secondi dotati di un grande scudo, detto pavese dalla città di Pavia, e spade corte, erano la milizia leggera e avevano il compito di presiedere le mura, le porte e proteggere il governo.
La milizia era suddivisa in due schiere da millecinquecento uomini con a capo un Banderese, coadiuvato da due anteposti e due prevosti eletti tra le file della Felice Società, alle loro dipendenze c’erano i conestabili che comandavano gruppi di venticinque uomini.
La priorità della Felice Società erano il popolo e la città di Roma, e nonostante avessero in forze tremila uomini, in caso di guerra solo 500 balestrieri e 500 pavesati potevano lasciare le mura cittadine.
I Banderesi ebbero un lavoro complesso nel ristabilire l’ordine dopo decenni di anarchia. Le sentenze capitali si susseguirono ogni giorno a ritmo frenetico. Sotto la scure del boia della nuova Repubblica, finirono cavallerotti e nobili che tentarono di ribaltare o ostacolare il governo Romano.
Le famiglie patrizie, rientrate dopo la caduta del Di Rienzo, furono costrette nuovamente a lasciare la città, salutati e beffeggiati dal popolo libero dopo anni di angherie.
Consolidato il potere interno, i Banderesi rivolgono le loro attenzioni ai comuni limitrofi, che negli anni di disordini si erano resi indipendenti, non versando più i dovuti tributi al Comune.
Dalle cronache della città di Tivoli del 1385, si legge che a seguito di una disputa tra i Tiburtini (cittadini di Tivoli) e la Repubblica Romana, i primi ebbero la peggio contro la milizia della Felice Società. I Banderesi ripristinarono il tributo dovuto, elevandolo da 200 scudi a 350 scudi. I Tiburtini reclamarono dal Santo Padre, ma ottennero la vecchia cifra solo agli inizi del 1400.
Nei registri Avignonesi sono molteplici i riferimenti a carteggi tra i comuni dell’Italia centrale e il papato che presentano proteste sull’inflessibile autorità imposta dai nuovi governatori.
I pontefici, sospettosi del potere autonomo Capitolino, indirizzano molte lettere ai senatori affinché vigilassero sull’operato dei governatori Romani. Inoltre, leggendo le carte ufficiali del comune del 1358, si evince come il potere si concentri sempre più nelle mani del nuovo governo poiché anche i caporioni vengono esclusi dalle cariche importanti e relegati come conestabili della milizia.
Lo stato di diffidenza, per chi avrebbe gestito la Cosa Pubblica, è evidente dai regolamenti interni, in quanto la legalità era garantita dal reciproco controllo: i tre Conservatori verificavano il lavoro del Senatore, a loro volta dovevano rendere conto ogni due mese al tesoriere comunale della loro gestione. Quattro sorveglianti verificavano il tesoriere e i magistrati. I Conservatori avevano carica di due mesi mentre il Senatore di sei. Non ci sono informazioni sull’elezione dei Banderesi ma si ritiene che gli uomini più validi nella milizia potessero aspirare a questo ruolo e l’incarico non durasse più di un anno.
I Banderesi ebbero un ruolo fondamentale in tutte le elezioni delle cariche pubbliche romane. La loro milizia, scortava, proteggeva e assicurava l’assenza d’ingerenze esterne, si occupava della riscossione delle tasse, ristabiliva l’ordine e garantiva un eguale giustizia sia per il popolano che per il nobile.
Lo stesso Gregorio XI, nel 1377, fissa nei patti per il rientro del pontefice a Roma che le gabelle fossero riscosse e amministrate dai due Esecutori di Giustizia (nella nuova riforma i Banderesi presero questo nome) e dai quattro Consiglieri.
Il Governo cittadino suddivise il territorio dal ponte di Ceprano al ponte di Paglia in sette provincie: Tuscia, Collina, Sabina, Romagna, Tivoli (e Carsoli), Campania, Marittima.
Le imposte sono regolate dalla nuova idea che plebei, nobili e clero siano uguali e soggetti alla stessa misura. I proventi sono legati a: pedaggio, diritti di pascolo, gabelle di proprietà, monopolio del sale, focatico e multe. Le pene sono severissime compresa la pena capitale per trasgressori recidivi.
La città godé di una rinnovata crescita economica.
Gli aumentati introiti furono destinati a beneficio di luoghi pii e in favore del popolo bisognoso, al mantenimento della milizia stessa, al rifacimento delle vie consolari e alla ristrutturazione delle mura.
Tal fortuna non toccò a chi si ribellò al potere della repubblica o a chi si era sottratto al controllo di Roma nel periodo di disordine.
Nel 1359 il poderoso esercito della Felice Società dei Balestrieri e dei Pavesati si fa largo nel territorio romano e negli Stati della Chiesa imponendo con la forza, lì dove fosse necessario, l’autorità capitolina. Molti castelli cedettero spontaneamente, come la città di Rieti, di Tivoli, Vitorchiano e Magliano Sabino, ottenendo riconoscimenti e riguardi speciali. Altre si lamentarono presso la curia papale e altre ancora opposero resistenza armata arrendendosi solo dopo battaglie magistralmente vinte dai Banderesi.
Ai territori sottomessi era fatto obbligo di nuove tasse, di non pretendere pedaggi nei confronti di alcun cittadino romano e di dover sottostare ad un podestà Capitolino.
La campagna militare dura un quinquennio alla fine della quale la città e il territorio hanno cinquanta anni di relativa pace. Ladri, tirannelli, signorotti prepotenti e compagnie di ventura finiscono nelle galere capitoline o sotto i colpi dei balestrieri a cavallo che pattugliavano il territorio. La fiducia rinasce negli uomini e donne sottomessi per decenni alle volubilità nobiliari e inspirò i moti popolari di comuni e repubbliche italiane.
Per rinsaldare lo spirito collegiale della città, i Banderesi istituiscono nuovamente i grandi giuochi di Carnevale. Lotte, tornei e giostre offerte ai cittadini cui erano obbligati a partecipare tutti i comuni amici e sottomessi con soldati e cavalieri per le mischie, falegnami e fabbri per le strutture, commedianti e quanto altro. La tradizione del carnevale romano arriverà sino all’ottocento, guadagnandosi un capitolo del Conte di Montecristo di Dumas.
L’atteggiamento della Chiesa è contraddittorio negli oltre sessanta anni a cavallo del periodo di ascesa e caduta della Felice Società. In principio, il papato Avignonese favorisce il popolo a discapito delle potenti famiglie romane, temendo la nascita di un comune indipendente come stava accadendo nel resto d’Italia. Clemente VI, nel 1352, dona 20000 fiorini ai romani per il consolidamento del governo. Innocenzo VI sostenne il periodo transitorio, tramite il cardinale Albornoz, escludendo la nobiltà dalle cariche comunali. Nel 1359 Innocenzo VI invia una lettera al senatore, ai sette riformatori, ai due Banderesi ed i rispettivi consiglieri, in cui si compiace del governo instaurato, esortandoli a liberare la città dalle funeste fazioni intestine. Tuttavia nel giro di pochi anni questo favoritismo si affievolisce, sfavorito dal crescente potere Banderese.
I malumori delle popolazioni limitrofe crescevano, temendo ripercussioni e i propri confini, lo stesso cardinale Albornoz, prima fautore dell’ascesa popolare, osservava preoccupato il dilagante potere romano approssimarsi ai confini del suo dominio umbro. Alle proteste dei comuni assoggettati con forza, si aggiunsero, dunque, quelle del cardinale, sempre più impegnato ad arginare l’avanzata romana. Un tentativo di ribellione, fomentato da nobili facinorosi, fu soffocato con durezza dai Romani.
I pontefici iniziano a scorgere all’orizzonte il rischio di perdere del tutto il potere su Roma, anche se ora era solo simbolico, spingendoli a prendere in considerazione le numerose richieste di rientro della sede cristiana nella città finalmente pacificata, primi fra tutti Santa Caterina, il Petrarca e la regina Giovanna di Napoli.
….Fine Parte 2 ….